Le tre sale che più ho apprezzato di American Art 1961-2001 | Fondazione Palazzo Strozzi

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Data di pubblicazione

10/05/2021
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Autrice del post

Cristina Maiorano

Oltre 80 opere a Firenze direttamente dagli Stati Uniti, in prestito dal Walker Art Center di Minneapolis.

Domenica 29 agosto ha chiuso al pubblico American Art 1961-2001 della Fondazione Palazzo Strozzi, mostra che aveva ufficialmente riaperto – sabato 28 maggio 2021 – la grande stagione della Fondazione dedicata alle mostre contemporanee, a sette mesi dalla chiusura di Tomás Saraceno. Aria. È stato un momento importante, questo. Ha segnato idealmente la fine di un lungo periodo di trepidazione, almeno per quanto riguarda me personalmente, durante il quale – purtroppo – è stato impossibile accedere a luoghi di cultura come musei o gallerie d’arte.

Va detto però che anche durante questi mesi segnati dalla chiusura degli spazi espositivi Palazzo Strozzi ha saputo far riflettere sull’idea di comunità, fruizione della cultura e condivisione attraverso due grandi progetti site specific – primo quello di Marinella SenatoreWe Rise by Lifting Others, poi La Ferita di JR – che hanno avuto una grande eco mediatica e soprattutto un importante impatto sulla cittadinanza. Attraverso i social media il Direttore Generale Arturo Galansino è riuscito a far dialogare lo spazio pubblico “fisico” di Palazzo Strozzi con quel luogo d’incontro virtuale costituito dalla cultura digitale, che mai come in questo periodo è sembrato essere più concreto.

La grande arte americana a Palazzo Strozzi

La mostra appena inaugurata, frutto di quattro anni di intenso lavoro da parte di Vincenzo de Bellis, curatore del Walker Art Center di Minneapolis e Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, abbraccia un periodo storico piuttosto lungo che va dal 1961 al 2001, esattamente lo stesso lasso di tempo che intercorre fra l’inizio della guerra del Vietnam e l’attentato dell’11 settembre 2001, e mira a fornire al visitatore una panoramica di alcune delle correnti artistiche americane più rappresentative di quegli anni.

Oltre quarant’anni di storia attraverso la produzione artistica americana

CHANGES

Appena salito lo scalone che porta diritto all’ingresso della mostra, posto al primo piano di quell’imponente edificio quattrocentesco che è Palazzo Strozzi, intravedo dritto davanti a me una sala con alcune installazioni che attirano la mia attenzione.

«Prego, da questa parte!» Una voce mi ricorda che non sono sola in quel contesto, e mi sveglia da una sorta di trance.

«Ecco, il mio biglietto…» Rispondo prontamente io.

«Sì, grazie, non occorre».

Con cuore trepidante mi lascio indirizzare dalla ragazza che si occupa dell’accoglienza verso una piccola entrata rettangolare posta alla mia sinistra, ne varco la soglia come fosse un portale spaziotemporale e per un attimo mi ritrovo ad immaginare quale curiosità entusiasta potessero aver provato Emmett “Doc” Brown e Marty McFly all’interno della macchina del tempo DeLorean, il veicolo usato per viaggiare attraverso la storia di Hill Valley nella trilogia di Ritorno al futuro.

Dopo aver lanciato un’occhiata distratta in giro, il mio sguardo si posa su di un’opera di dimensioni discrete, posta sulla parete alla mia destra. Improvvisamente sento il cuore in gola, quasi come se volesse uscire dal mio corpo per andare ad abbracciare quel Rothko.

Mark Rothko, N. 2, 1963. Olio, acrilico e colla su tela.

Ho sempre avuto un debole per l’artista lèttone di origine ebrea, poi naturalizzato statunitense. Di quelle cose che semplicemente non ti sai spiegare.

Sì, come avrete ormai ben capito questa non è una semplice recensione della mostra American Art 1961 – 2001. Qui voglio soffermarmi sulle sensazioni e sulle emozioni che il percorso espositivo mi ha suscitato, senza risparmiarmi. Non troverete tutte le sezioni o tutte le opere, ma la mia personale rivisitazione di questa esperienza, da un punto di vista critico.

Tornando a noi. La prima sala promette bene, è sublime. Rappresenta un ponte tra passato e futuro, tra Vecchio e Nuovo Mondo. Louise Nevelson – scultrice ucraina, anch’essa di origini ebree naturalizzata statunitense – e Mark Rothko hanno in comune la capacità di cogliere le immagini al di là del presente, caratteristica visionarietà di matrice ebraica che si traduce in un senso religioso e mistico dell’arte. Quello che sembra davvero essere un altare è posto difronte a me, in tutta la sua maestosità. L’artista era solita utilizzare rifiuti di legno da costruzione assembrandoli sapientemente e con rigore espositivo sino a farli diventare quasi una sorta di quadro scolpito, che mantiene la caratteristica bidimensionalità tipica delle arti figurative.

Louise Nevelson, Sky Cathedral Presence, 1951-1964.

Negli anni Quaranta entrambi gli artisti facevano parte dell’ambiente newyorchese di Peggy Guggenheim, assieme al simbolo per eccellenza del traghettamento fra i due mondi, Marcel Duchamp. Nella stessa sala si trovano un paio di opere di un altro artista americano, Joseph Cornell, dallo sguardo poetico rivolto al Vecchio Continente sulle quali aleggia sicuramente lo spirito del padre dell’arte concettuale.

Guarda invece al futuro la ricerca di Bruce Conner – ultima opera sulla quale mi sono soffermata per una manciata di secondi – introducendo temi quali l’interdisciplinarietà dell’arte e la rottura con la tradizione modernista, sviluppatasi successivamente nella produzione artistica d’oltreoceano, dietro la quale si nasconde l’intento di portare avanti un percorso di emancipazione della cultura europea alla ricerca di una identità propria.

POPS

La seconda sala espositiva è certamente la più ambita dalla maggior parte dei visitatori, celebra la grande stagione dell’arte degli anni Sessanta ed è richiamata persino dalle locandine della mostra, con la famosa Sexteen Jeckies di Andy Warhol.

La Pop Art americana ha segnato un’epoca magistrale per l’arte a livello mondiale, diffondendo il mito del “sogno americano”, spettacolarizzando la società e la vita quotidiana e superando le emozioni individuali e individualiste rappresentate dalla corrente artistica contemporanea dell’Espressionismo astratto. L’intento era quello di eliminare totalmente la mediazione personale dell’artista, riportando l’arte a un confronto diretto con la realtà che riuscisse però a renderla anche completamente anonima attraverso la ripetitività.

Andy Warhol Campbell’s Tomato, Del Monte peach, Kellogg’s Corn… boxes, 1964

In questa sala sono esposte le opere di alcuni dei più importanti artisti pop, a partire da Andy Warhol e i suoi main theme legati alla celebrità, ai mass media e la diffusione delle immagini, la serialità, la morte, e Roy Lichtenstein, il cui stile inconfondibile è incarnato dal retino tipografico che utilizza le immagini dei fumetti e rivisita l’arte del passato.

Roy Lichtenstein, Artist’s Studio No. 1 (Look Mickey), 1973

Una bella differenza fra Andy Warhol e Roy Lichtenstein è incarnata dal fatto che quest’ultimo non tradirà mai il suo amore per il gesto pittorico, continuando a lavorare a mano per tutto il corso della sua vita, mentre Warhol passerà dalla pittura alla riproduzione serigrafica.

In Claes Oldenburg, artista e scultore svedese nato nel 1929 e considerato uno dei maggiori esponenti della Pop Art, gli stessi oggetti frutto del consumismo – gli anni Sessanta furono considerati il periodo di massima espansione economica che il mondo occidentale aveva mai conosciuto dal secondo dopoguerra – riprodotti ma estratti dai loro contesti originali e straniati, diventano arte a tutti gli effetti. Robert Indiana invece trae ispirazione dal mondo della comunicazione pubblicitaria e dai nuovi brand commerciali, ma con una sottile vena critica molto esplicita nei confronti della cultura contemporanea quasi completamente, assente negli altri.

La seconda parte della sala è dedicata a quattro icone dell’arte americana: Merce Cunningham, John Cage, Robert Rauschenberg e Jasper Johns. La stretta collaborazione fra queste personalità hanno saputo rivoluzionare i rispettivi campi d’azione, ovvero musica, danza e arte visiva. Sono riusciti a dare vita a un nuovo modello di interazione tra discipline artistiche.

Cunningham è stato uno dei primi artisti interdisciplinari sempre aperto a collaborazioni, sviluppando con successo un tipo di arte totalmente intermediale e trasformando radicalmente la danza. Ne sono esempi importanti gli elementi di scena di Minutiae (1954-1976) e Walkaround Time (1968), ideati senza dare alcuna indicazione a Rauschenberg e Johns se non quella di creare dei pezzi intorno a cui i ballerini potessero muoversi. Questo metodo di concepire la coreografia in maniera indipendente è diventato il modus operandi preferito di Cunningham, facendo sì che arte visiva, danza e musica si fondessero insieme sulla scena rimanendo però concettualmente autonomi.

LESS IS MORE

Anticipata nella prima parte della sala dedicata agli artisti sopracitati da alcune delle opere più significative di Ellsworth Kelly – che con la loro eleganza astratta e formale ne rappresentano un momento di passaggio – la sezione successiva è interamente dedicata all’arte minimalista, che amo profondamente.

Ellsworth Kelly, White Curvas I, 1978.

Come avevo anticipato qualche riga sopra, Minimal e Pop Art sono le principali tendenze del cambiamento artistico degli anni Sessanta e sono caratterizzate principalmente, in opposizione all’Espressionismo astratto, dalla totale assenza del gesto (sempre con una connotazione fortemente emotiva) e dalla tendenza verso un’arte impersonale. Conseguenza e reazione alle vicende drammatiche della guerra in Vietnam.

Il Minimalismo non è una corrente artistica omogenea, al contrario è fortemente caratterizzato da forti differenze di approccio degli artisti. Uno dei miei preferiti in assoluto è Donald Judd, che ne redige una sorta di manifesto con gli specific objects, opere tridimensionali con caratteristiche sia della pittura che della scultura, senza però poter essere classificate in un unico genere artistico immanente. Come Carl Andre, anche Judd abbandonerà presto lo studio per esternalizzare la produzione delle sue opere, secondo una pratica che diventerà molto comune e che vedremo anche nell’articolo dedicato alla mostra successiva, inaugurata a Palazzo Strozzi il primo di ottobre di quest’anno, il cui protagonista è l’artista contemponareo statunitense Jeff Koons.


Tornando all’arte minimal, i famosi tubi al neon di Dan Flavin giocano sullo scolpire lo spazio attraverso la luce, mentre Sol LeWitt – artista più interessato al mondo delle idee che agli oggetti – prende una direzione concettualistica. Al contrario le due artiste Ann Truitt e Agnes Martin, presenze più che uniche in un mondo ahimè dominato da uomini come quello del minimalismo, restano legate al gesto artistico e dunque enfatizzano l’intervento manuale attraverso la produzione in studio. Un’opera però mi ha davvero molto colpita sin da subito – adocchiandola da lontano. Si tratta un feltro di Robert Morris, esempio unico in sala di Process Art, in quanto materiale – il feltro – non completamente gestibile dall’artista. Interessante la contrapposizione fra le rigidità minimaliste di Judd e Richard Serra e la morbidezza di un’opera il cui materiale ne enfatizza il processo fisico della produzione.

E con questo ultimo dettaglio con il quale ho voluto concludere quella che per me è una selezione molto personale – che spero sia stata di tuo gradimento – della mostra precedentemente visitabile a Palazzo Strozzi, voglio ricordarti che fra tutti i servizi che offro nel mio sito c’è anche quello di organizzazione mostre e eventi culturali, per il quale ho acquisito ormai una decina d’anni d’esperienza. Per qualsiasi informazione o forma di interesse puoi contattarmi nel modo a te più congeniale o semplicemente richiede una consulenza, attraverso la quale studieremo assieme il percorso più giusto per la tua esposizione.

Ciao ciao, alla prossima puntata! 💙

📸: Immagini: Cristina Maiorano © 2021
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